DanceWorks Chicago

Sada: coreografia Edgar Zendejas, Beat in the Box: coreografia Brian Enos, Addio Amore: coreografia Nelly van Bommel, Nocturnal Sense: coreografia James Gregg, Call the Whole Thing Off: Coreografia Harrison McEldowney, My Witness: coreografia Gina Patterson, Direzione artistica Julie Nakagawa, Direzione esecutiva Andreas Böttcher, Interpreti: Steffi Cheong, Marissa Horton, Amber Jackson, Luis James Jackson, James Johnson, Josepth Kudra.
Mestre, 19 aprile 2012. Arrivo al Toniolo con qualche minuto di anticipo e assisto all’immediato riempirsi del teatro. Al mio fianco un fotografo che come me si prepara coprendo la fotocamera con lo strumento fondamentale di ogni fotografo di scena: il blimp, copertura tesa ad attutire il tanto amato e odiato rumore dello specchio di qualsiasi reflex che si rispetti. Mentre aspettiamo l’inizio dello spettacolo mi racconta di fotografare la danza da trentasette anni. Mi dice anche di non esser mai riuscito a vivere di fotografia di scena e di aver sempre avuto un lavoro parallelo.
Lo spettacolo inizia e i DanceWorks Chicago subito coinvolgono il pubblico con il loro movimento continuo e mai uguale a se stesso. «Always Moving» era la parola chiave che tornava in tutte le recensioni su di loro che avevo consultato prima di chiederne gli accrediti. Solo ora capisco cosa voglia dire.
Totalmente rapita da dinamiche coreografie in continua evoluzione cado presto in uno stato di osservazione abbandonata piuttosto che dedicarmi all’abituale registrazione dell’evolversi dello spettacolo davanti ai miei occhi.
E’ il rumore dello specchio del fotografo accanto a me a riportarmi presto con i piedi per terra. Una riflessione veloce mi porta a pensare come scatti sempre al momento giusto e mi chiedo anche come sia possibile che non sia mai riuscito a rendere la propria passione il proprio mezzo di sostentamento. Ma manca solo che in questo momento mi perda a riflettere sulle scarse possibilità di poter vivere dignitosamente della propria arte in questa strana penisola e torno a concentrarmi sullo spettacolo.
L’emozione torna forte e le coreografie riprendono ad avere la meglio su di me. La tensione è tale che più e più volte decido di non scattare pur di non spezzare con il rumore dei miei scatti la poesia che avvolge me e il pubblico che mi circonda.
Poi penso all’approccio dei DanceWorks Chicago alla danza, al loro mettere ciascun performer al centro dell’attenzione come creatore individuale, al loro lasciar spazio all’interpretazione di ciascun singolo. E finalmente riesco a legittimare la mia insolita e abbandonata interpretazione.
Articolo e fotografie: Serena Pea